Dato che la Signora Tubi all'ILVA ci lavora, questa mattina la tivù era accesa per seguire la diretta della visita del Papa allo stabilimento: si era infatti incuriositi dell'effetto dei grandi e dispendiosi lavori che la società, malgrado lo stato fallimentare profondo, ha ritenuto di dovere attuare per fare bella figura.
Il Santo Padre non ha deluso le aspettative facendo un discorso secondo il suo stile (che personalmente apprezzo assai) parlando in sostanza della dignità del lavoro, ma menando fendenti a chi volesse intendere, sottolineando per esempio le differenze che distinguono un imprenditore da uno sciacallo ed il ruolo della classe politica che talvolta sembra più impegnata a salvaguardare i secondi anziché a favorire la nascita di nuovi posti di lavoro. Com'è naturale ha riscosso il plauso della platea dei lavoratori ILVA, in primis degli operai presenti, caldamente invitati (obbligati) per la recita del copione ad indossare tuta ed elmetto, come se fossero potuti piovere chissà quali corpi contundenti all'interno di un capannone tirato a lucido come la Scala alla prima della stagione lirica.
Alla fine del discorso di Papa Bergoglio un cronista della RAI si è precipitato tra i lavoratori per conoscere le loro impressioni. Il primo intervistato ha lodato il discorso del Papa dicendo sostanzialmente che era stato fatto come da uno della loro parte e non con l'intento di pontificare concetti distanti anni luce dalla realtà. Quindi il cronista si è rivolto all'operaio che era al fianco del primo dicendo: "quello del Papa è stato però anche un discorso di speranza, vero?" L'altro, estremamente serio, coinvolto e convinto ha stigmatizzato la sua condivisione con un raggelante: "menimbelino!"
Ora, per chi non ha dimestichezza col genovese è difficile cogliere tutta la forza dell'affermazione che, talvolta storpiata in "belin-belino", è in realtà la contrazione di "me ne imbelino" e può essere comparata con un "altroché!", logicamente connotato da un tasso di volgarità un filo più elevato. Non so se il cronista fosse della sede RAI locale o di quella centrale, ma ha comunque intuito la pericolosità di eventuali repliche troncando istantaneamente le interviste.
Io da sempre sostengo che quando uno ha imparato a coniugare "belin'" (budellino) è praticamente padrone del dialetto genovese: con le varie declinazioni riflessive, transitive, impersonali e chi più ne ha più ne metta, si esprime tutto ed il contrario di tutto.
E' tuttavia in parte misteriosa l'etimologia di "menimbelino", poiché "imbelinare", pur con varie sfumature, esprime sempre una collocazione abbastanza violenta o quantomeno sgarbata o sgradevole: "Mea, 'sta cascia chi a l'è in te cuggie: imbelinala in po' in te quellu cantu!" (Guarda, questa cassa qui è tra i coglioni, sbattila un pò in quell'angolo!); "A gh'ea 'na fossa aperta e u se gh'è imbelinou drentu!" (c'era una fossa aperta e c'è caduto dentro!). Spesso esprime un senso ancora più cruento l'utilizzo del "dare una una belinata": "U s'è ingambou in te schee e u l'ha deto 'na belinà in tu purtun che l'han purtou a l'uspià" (s'è inciampato nelle scale ed ha dato una botta nel portone che l'hanno dovuto portare all'ospedale). Non mancano però le eccezioni: "Mea, sun stancu mortu: vaggu a da' na belinà in lettu, se dunca m'addormu chi!" (guarda, son stanco morto: vado a sdraiarmi a letto, altrimenti mi addormento qui!).
Negli usi di "belin" non mancano però espressioni simpatiche ed efficacissime per il loro contenuto paradossale: per esempio, in occasione di attese protratte ed infruttuose è in uso affermare: "U belin fà l'ungia!" (Al belino cresce l'unghia).